Non si dice, ma con la Cirinnà si torna al medioevo e al matrimonio riparatore

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Con il DDL Cirinnà si ritorna alla fuitina, al matrimonio patriarcale, se lasci il fidanzato ti ritrovi invischiato in lunghe cause nei tribunali, carte bollate, avvocati e montagne di soldi per pagare alimenti e mantenimento

MatrimonioinSicilia

Ho l’impressione che mentre l’opinione pubblica è impegnata a riempire fiumi di discussioni al bar, nelle case, in tv, se non addirittura in piazza, pochi abbiano speso qualche minuto per leggere il testo del Ddl Cirinnà. Per intero.

Tralasciando ora la questione delle «Unioni Civili», così evitiamo di scatenare gli ultras, che sono regolate nel capo 1 della legge (quelle unioni discriminatorie in quanto sono appannaggio dei soli omosessuali, come ho spiegato qui), sarebbe interessante che qualcuno cominciasse a parlare pure del titolo 2, quello che regolerà in futuro le convivenze.

Perché mentre tutti si accapigliano sulla questione dei gay, tacciando i detrattori come persone che vivrebbero nel medioevo culturale, sfugge un po’ a tutti che con la Cirinnà si rischia davvero di tornare al medioevo, giocandoci qualche decennio di emancipazione nel modo di vivere i rapporti sentimentali e la vita di coppia. Cerco di spiegare perché.

Innanzitutto come si definisce una convivenza secondo la futura legge Cirinnà? E come si determina il momento in cui ha inizio questa convivenza?

Qualsiasi persona, dotata di un minino di buon senso, ipotizzerebbe che la convivenza si debba determinare a fronte di un atto o una dichiarazione volontaria della coppia. Cioè per intenderci: io voglio riconoscere il mio rapporto di convivenza, mi reco in comune e lo comunico con una dichiarazione firmata da entrambi i conviventi. E invece? Invece no. Ecco cosa si è inventata la Cirinnà.

Il primo e secondo articolo del capo 2 recitano:

  1. Ai fini delle disposizioni del presente Capo si intendono per: «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile.
  2. Per l’individuazione dell’inizio della stabile convivenza trovano applicazione gli articoli 4 e 33 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223.

Il combinato disposto di questi due articoli, come facilmente intuibile, determina che la convivenza viene presunta «di fatto», cioè due persone che iniziano a vivere insieme sono due conviventi. A prescindere dalla loro volontà di esserlo. Una visione patriarcale dello Stato, che come un padre padrone decide lui quando due individui debbano considerarsi conviventi. Roba da film anni ’50. Viene richiesto anche che siano «unite stabilmente da legami affettivi». Sfido però come si possa determinare se due individui siano effettivamente unite da legame affettivo? Interroghiamo amici e parenti Mettiamo una telecamera dentro ad ogni casa dei conviventi? Chiara invece la data da cui si presume inizi la convivenza: semplicemente quando i due individui fissano la residenza nella stessa abitazione.

Ciò significa che lo Stato, senza la presenza di nessuna manifestazione volontaria da parte delle due persone (che in linea teorica dovrebbero definirsi libere), decide di appioppare loro lo status di «conviventi».

Questo sarebbe già di per se grave, ma il problema più grande è quali doveri e obblighi si determinano dal riconoscimento di questo nuovo status.

Per esempio si matura il diritto di detenere l’abitazione, anche dopo la morte del convivente proprietario, per un periodo di tempo pari alla convivenza maturata, ma comunque minimo di due anni.

Art. 13.

(Permanenza nella casa di comune residenza e successione nel contratto di locazione)

  1. Salvo quanto previsto dall’articolo 155-quater del codice civile, in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni. Ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni

Questo articolo potrebbe pure trovare un senso nel caso la convivenza non fosse «di fatto», cioè nel caso in cui il riconoscimento della convivenza fosse frutto di una decisione volontaria e presa da entrambi gli individui. Ma con il nuovo concetto di «convivenza di fatto», si determinerebbero casi clamorosi. Due persone che convivono qualche mese, magari ignare dell’esistenza di questa legge, nel caso di morte prematura di uno di essi, sottrarranno agli eredi legittimi la fruizione di un loro bene, senza che il defunto abbia mai manifestato nessuna intenzione, nemmeno di voler riconoscere la convivenza. Pensiamo ai figli di un genitore separato, che si vedrebbero privati di un loro bene, senza che il genitore ne fosse consapevole.

Ma questo non è nulla, perché il peggio deve ancora venire.

Il convivente di fatto, sempre in assenza di qualsiasi dichiarazione volontaria, in caso di separazione dovrà garantire l’assegno famigliare e il mantenimento al fidanzato più debole economicamente.

Art. 15.

(Obbligo di mantenimento o alimentare)

  1. In caso di cessazione della convivenza di fatto, ove ricorrano i presupposti di cui all’articolo 156 del codice civile, il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente quanto necessario per il suo mantenimento per un periodo determinato in proporzione alla durata della convivenza.
  2. In caso di cessazione della convivenza di fatto, ove ricorrano i presupposti di cui all’articolo 438, primo comma, del codice civile, il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente gli alimenti per un periodo determinato in proporzione alla durata della convivenza.

Il portato di questa previsione normativa è gigantesco, anche dal punto di vista culturale. Si cancellano anni di emancipazione. Poniamo per esempio questo caso, nemmeno tanto raro: due giovani fidanzati decidono di «provare» la convivenza, e non è detto che ciò debba per forza arrivare dopo un lungo fidanzamento. Può succedere dopo poche settimane, magari perché semplicemente uno dei due già vive da tempo da solo. Dopo due o tre anni dopo, come può purtroppo capitare, i due fidanzati si lasciano. Una cosa triste, dolorosa, ma tutt’altro che rara, soprattutto tra le giovani coppie.

«Menomale non si sono sposati», direbbe la saggezza di mamma. Altrimenti ci sarebbe tutta la trafila degli avvocati, tribunali, sentenze, carte bollate e un mucchio di soldi.

Con la Cirinnà cambia tutto, come se tornassimo indietro di cinquant’anni. I due fidanzati saranno considerati «conviventi di fatto», magari pure inconsapevolmente, e nella nuova legge è previsto che il fidanzato economicamente più debole abbia diritto agli alimenti e ad un assegno di mantenimento. Tale e quale al matrimonio. E lo ripeto, nel caso non fosse chiaro: tutto ciò in assenza di un qualsiasi atto volontario, dichiarazione o modulo, compilato dai conviventi. Basta semplicemente che i due abbiano posto la residenza nella stessa abitazione.

Scordatevi quindi gli ultimi cinquant’anni di emancipazione sociale, quella che ha permesso ai giovani di andare a convivere prima di sottostare alla rigida cerimonia di un matrimonio. Tutto cancellato, ritorniamo dritti dritti al medioevo sociale.

È un po’ come se nel 2016 ci fossimo messi ad istituzionalizzare la «fuitina» e il matrimonio riparatore: basta dormire nello stesso letto ed è come se fossimo sposati. Aberrante, una roba da famiglia patriarcale siciliana degli anni ’60. E questa sarebbe la modernità evocata dalle manifestazioni arcobaleno? Accipicchia!

Ma lo sapranno tutti i ragazzi, gay o etero non importa, che sfilano per difendere la legge Cirinnà? Forse non hanno letto il testo. Forse non sanno che così si ritorna davvero al medioevo, ad un mondo in cui non puoi nemmeno provare a convivere con il tuo ragazzo o la tua ragazza, salvo rischiare di ritrovarsi invischiato in lunghe cause nei tribunali. Bella roba.