«Usi la mazza da baseball!» Così il Giudice consiglia la giustizia fai da te

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La storia vera di un autista aggredito per aver chiesto il biglietto. Convinto dopo mesi a ritirare la querela, il giudice in tribunale consiglia di farsi giustizia da sé. Ecco l’italia.

DCF 1.0

Quella che vi racconto è una storia di ordinaria italianità, una storia vera, in cui potrei produrre tutti i dettagli del caso: nomi, cognomi, date e luoghi precisi. Utilizzerò nomi di fantasia, giusto per non rischiare di aggiungere la seconda beffa al malcapitato, perché la prima, oltre al danno, l’ha già dovuta assaporare. Così amara, come solo un’ingiustizia riesce ad essere.

Tutto ha inizio in una bella giornata di sole, uno dei primi della primavera 2015. Luca, il protagonista di questa storia, si mette alla guida del suo autobus come ogni mattina, battendo le strade di una delle tante corse che coprono la provincia di Como. Sul bus sale con lui solo un’attempata passeggera, le poltroncine tutte vuote. Giunge alla prima fermata, le porte si aprono, sale un trentenne dall’aria trasandata. Il tizio non è provvisto di biglietto. Luca potrebbe fare come tutti, cioè far finta di niente. Perché tirarsi addosso una grana? In fondo lo stipendio alla fine del mese a lui arriva comunque. Lui ha moglie e figlio a casa e lo sappiamo che chiedere ad un balordo di pagare il biglietto, alla fine, son solo rogne. Però Luca è diverso, la pensa come la signora Marcus in quel vecchio film che si intitolava «Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo»:

Ma che razza di atteggiamento è questo? Cose che capitano? Capitano soltanto perché questo Paese è pieno di gente che quando queste cose capitano dice ‘sono cose che capitano’ ed è per questo che capitano.

«Signore, se non ha il biglietto lo può fare ora, sono 1,80€». Il balordo reagisce male, si incazza di brutto, cava un biglietto da 20€ dalle tasche, lo stropiccia con disprezzo tra le mani e lo getta sul volto di Luca. Non contento lo insulta e lo prende a male parole, come se avesse osato reagire, contravvenire ad un rigido schema di regole non scritte, le uniche che paradossalmente in Italia si riesce a far rispettare con solerzia: che se sei un prepotente, un delinquente, un senza morale, uno che vive ai margini della legalità, non ti possono toccare. Luca semplicemente lo ignora. Raccoglie il biglietto da venti, lo stira e lo mette in cassa. Prepara un biglietto da dieci, uno da cinque, tre monetine da un euro e una da venti centesimi. «Ecco il suo resto. Grazie per la collaborazione».

Arriva il capolinea. La sciura, unica passeggere e testimone oculare dei fatti, lascia velocemente il bus. Perché nessuno vuole grane, tantomeno la gente per bene.

Nel frattempo lo sbandato non ha smesso un secondo di indirizzare insulti a Luca ed ora si dirige spavaldo verso di lui, che è rimasto tranquillo sul sedile anteriore. Luca ha parcheggiato il bus in fermata, apre le porte anteriori sperando che tutto possa finire li. Ma il tizio è aggressivo, vuole regolare i conti con chi ha osato esigere il rispetto delle regole. Cioè pagare una corsa da 1,80€. Luca si alza, intima di scendere altrimenti si sarebbe visto costretto a chiamare i Carabinieri con il proprio cellulare. La situazione non cambia, il balordo è sempre più minaccioso. Luca scende, decide di recarsi direttamente a piedi alla stazione dei Carabinieri, per coincidenza si trova a pochi metri dal capolinea. Appena volta le spalle, nemmeno coperto un passo di distanza, il vigliacco sferra a Luca un pugno tra la nuca e l’orecchio destro. L’istinto prende il sopravvento, Luca si gira e a sua volta facendo partire un pugno in volto all’aggressore. Poi corre verso la caserma, inseguito dal tizio che inizia a minacciarlo di morte.

Gli uomini dell’arma prestano soccorso, danno la solidarietà dovuta a Luca, lo proteggono e lo liberano da chi ancora voleva tentare di aggredirlo. Le lesioni lo costringono ad un riposo forzato per nove giorni, dopoiché decide di querelare quell’individuo che lo aveva insultato e colpito alla testa, solo per non pagare 1,80€ di biglietto.

Dopo un paio di mesi viene convocato in un’altra caserma dei Carabinieri. «Le consigliamo di ritirare la querela, questo è un delinquente, non riuscirà comunque ad ottenere nulla». Luca rifiuta. Perché ancora quelle parole gli ronzano in testa:

Ma che razza di atteggiamento è questo? Cose che capitano? Capitano soltanto perché questo Paese è pieno di gente che quando queste cose capitano dice ‘sono cose che capitano’ ed è per questo che capitano.

Con l’inizio dell’estate arriva anche la prima udienza. Davanti a lui l’avvocato d’ufficio, nominato difensore dell’aggressore. Luca è da solo, non ha diritto al gratuito patrocinio. Il difensore si limita a chiedere un rinvio, non avendo potuto accordarsi con il suo assistito (il balordo e aggressore). Chiede a Luca nuovamente di ritirare la querela. Lui, ancora una volta, rifiuta.

Passano altri due mesi, ecco un’altra udienza. Ora c’è un altro avvocato d’ufficio. Stessa richiesta rivolta a Luca. «Senta, ritiri la querela. Il mio assistito è un pluripregiudicato per reati minori, è seguito dal servizio tossicodipendenze, non ha il minimo patrimonio, non ha reddito e vive a carico della nonna novantenne. Insomma, che cosa va cercando? Non si impunti e ritiri la querela, queste dopotutto sono cose che capitano».

Luca non molla, perché lui cerca semplicemente giustizia, perché si è preso un pugno da un balordo che con arroganza non voleva pagare 1,80e, pur avendo in tasca un biglietto da venti.

E poi ci sono sempre quelle parole nella sua testa:

Ma che razza di atteggiamento è questo? Cose che capitano? Capitano soltanto perché questo Paese è pieno di gente che quando queste cose capitano dice ‘sono cose che capitano’ ed è per questo che capitano.

Arriva finalmente il giorno del dibattimento. Il Giudice Pellegrino è in aula, insieme alla Cancelliera e al Pubblico Ministero, entrambe donne. Poi naturalmente l’avvocato difensore del balordo e poi lui, Luca, da solo come sempre.

In aula si snocciola la lunghissima sfilza di reati dell’imputato, tre buone pagine di porcherie varie. Ci si dilunga sulla descrizione minuziosa del suo «disagio sociale».

Il Giudice Pellegrino maneggia le carte per qualche secondo, poi alza gli occhi al cielo, tira un sospiro che vorrebbe tanto poter essere una imprecazione. Guarda Luca negli occhi: «Senta un po’, lei è una brava persone, l’ho capito bene, così come è chiaro lo svolgimento della vicenda. Non ho dubbi. Ho anche capito che lei cerca giustizia, non vuole denaro. Ma non la troverà. Non qui. Le spiego cosa succederà: questo balordo ha un destino segnato per la vita. Il procedimento non farà altro che aggiungersi al lungo elenco di quelli già in corso. Faremo un processo, poi lo condanneremo a qualche mese di carcere e ad una pena pecuniaria, che lui naturalmente non pagherà. Quel processo però lo pagherà anche lei, perché sarà a carico dei contribuenti, senza contare che riempiremo di lavoro inutile i tribunali. Anche se ritira la querela, glielo assicuro, rimarrà comunque tutto scritto da qualche parte. Farlo, mi creda, sarebbe l’unico atto di buon senso che possa accadere qui oggi.»

A Luca cadono le braccia. China il capo, lo rialza e lo scuote a destra e sinistra. «Ditemi dove devo firmare.»

Pronuncia le frasi di rito al cancelliere e la querela è ritirata. Alla fine tutte le cose si sono rimesse al loro posto, almeno nel modo che si rimettono al loro posto in Italia. Perché, in fondo, sono «cose che capitano».

Luca sta per aprire la porta in fondo alla stanza, ha già dato le spalle al Giudice, quando sente la sua voce che lo chiama: «Senta, mi ascolti. Le consiglio io cosa fare la prossima volta che le capita una cosa del genere: tenga al suo fianco una bella mazza da baseball, sarà l’unico modo di trovare giustizia».

Luca è sbalordito, com’è possibile sentire queste cose dentro un palazzo dove il cittadino dovrebbe trovare giustizia e non farsela da solo?

Poi il giudice rincara la dose: «e mi raccomando, non sia ingenuo. Quando poi arriveranno i Carabinieri a chiederle conto di come mai brandiva una mazza da baseball, magari trovando la cosa un po’ strana, lei risponda tranquillamente che l’ha trovata per caso. Tutto finirà bene».

Ecco, questa storia è tutta vera, purtroppo una storia come tante altre ne accadono in Italia, quotidianamente. E vi confesso, non so nemmeno cosa pensare del giudice. È un eroe che ha il coraggio di dire le cose come stanno, oppure un complice di un sistema che non riesce a dispensare giustizia? Non lo so. Forse è semplicemente una vittima del sistema italia, come tutti quanti noi. Si, perché in fondo sono «cose che capitano».