Credo che Paolo Virzì abbia rilasciato l’intervista a Repubblica senza aver visto prima il suo film. È stato questo il commento che ho rilasciato alla giornalista de Il Giorno che mi ha invitato ad assistere alla proiezione della pellicola. Non vi ho trovato nulla, (e non sono l’unico, anche Giovanni Sallusti questa mattina la pensa così) di quella spietata analisi, di quelle considerazioni sciocche e provocatorie che aveva rilasciato lo stesso regista ai taccuini del giornale di Scalfari. Repubblica, appunto; forse il problema sta tutto lì, quando ti trovi ad essere intervistato da Natalia Aspesi può capitare che questa ti faccia sdraiare sul lettino e ti porti a raccontare non tanto ciò che vuoi tu, piuttosto ciò che detta l’ideologia del partito di Repubblica. Ed ecco allora spiegato, forse, il motivo per cui una commedia noir, a tratti anche un po’ scontata nella trama (a metà film sono riuscito ad anticipare già il finale), ma del tutto estranea dal contesto in cui è stata girata, sia stata invece dipinta come l’opera che in qualche modo doveva mettere a nudo i difetti e le tare di un intero territorio e la sua gente; la Brianza e i Brianzoli.
Niente di tutto questo nel film; la Brianza non si vede, non c’è. Non pervenuta. I brianzoli nemmeno. Intendiamoci, il film è anche tecnicamente ben fatto, gli attori recitano molto bene e a tratti, seppur brevi, sembra quasi di stare a vedere una produzione americana. Poi, inevitabilmente esce, virulento, quello strano mix tra provincialismo e snobismo radicalchic, tipico di certa sinistra italiota. C’è un maldestro aspirante immobiliarista, un po’ sprovveduto, un po’ pasticcione, un po’ buffone; insomma, semplicemente il ritratto di un pirla, di quelli che se ne possono trovare ad ogni latitudine. Accanto un uomo della finanza, più bauscia milanese che brianzolo, ricchissimo, con una villa infinita, con piscina, campi da tennis e servitù. Una moglie ex attricetta, probabilmente ex bellona, con il pallino della cultura, che nel film ha una sbandata con un intellettuale di sinistra che si veste con giacche improbabili. Come dite? Se si chiama Veronica? No, non siamo nella documentaristica, piuttosto nello scontatissimo territorio, vasto e infinito in Italia, della caricatura banale e scontata. Come il personaggio dell’Assessore leghista, un tipo paciarotto con il capello lungo alla Braveheart, ma visibilmente a disagio con l’abito tipo prima comunione, e che, grande colpo di genio di Paolo Virzì, ha un telefono con la suoneria sulle note del “Va Pensiero”. E qui abbiamo sconfinato nel trash. L’insulto velato arriva quando il personaggio pretende che il Teatro Politeama di Como venga rilanciato valorizzando i canti di montagna della Valcuvia; a parte che la Valcuvia è popolata da gente rispettabilissima, fa rabbia che, come sempre, questi salottari di sinistra riducano la difesa della cultura identitaria del Nord come una roba di serie B, da sfigati. Qui l’unico sfigato è chi rimane ancorato a ridicoli stereotipi e non riesce ad evolversi.
Ma adesso basta, occupiamoci di cose più serie e molto più importanti. La Brianza soffre, è vero, ma non per i motivi supposti dalla Aspesi e da Virzì; qui soffriamo perché uno Stato cialtrone, invadente, burocrate e sprecone, incapace di riformarsi e di farsi riformare, arrogante al punto di non aver mai accettato nemmeno la più minima istanza autonomista, tra le tante proposte e avanzate dalla Lega in 20 anni (Devolution e Federalismo fiscale su tutti); questo Stato sta uccidendo il nostro tessuto produttivo, sta rubando il futuro ai figli di una delle terre più ricche, ma di una ricchezza sana, figlia del lavoro, del dinamismo imprenditoriale che trova pochi pari nel mondo. Qui la gente si è fatta da sola con il sudore che rigava la fronte, con il lavoro quello vero, che ti lascia la segatura sulle spalle, non certo grazie a qualche manovra speculativa nei mercati finanziari, come raccontato nel film. Questi sono i problemi della Brianza, che non chiede niente, non ha mai chiesto niente, nemmeno di essere lisciata in qualche operetta cinematografica; la Brianza chiede solo più libertà, di essere lasciata in grado di fare ciò che ha sempre fatto: lavorare e creare ricchezza, per la sua terra e per i suoi tanti figli. Perché qui, più che in ogni altro luogo, ha potuto funzionare quell’ascensore sociale capace di elevare anche chi veniva dal basso, chi partendo da umili botteghe riusciva a farsi industriale, arrivando a conquistare i mercati del mondo. Un po’ come il sogno americano, quello che può regalarti il successo, anche noi vorremmo continuare a vivere il sogno brianzolo.