VOGLIONO IL KEBAB PER LA CASTA. Le grandi battaglie per i diritti civili dell’on. Khalid Chaouki

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“I have a dream”, gridava dal Palco di Washington, Martin Luther King, Durante il celebre discorso del 28 agosto del 1963. Il Pastore protestante sognava un’America, e un mondo, in cui tutti gli individui avessero pari diritti, pari dignità; si batteva per gli ultimi, gli emarginati, i poveri, insegnando loro la potenza e la forza della lotta non violenta.

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In questo agosto 2013, giusto mezzo secolo dopo, il razzismo torna a riempire le cronache USA. Il ruolo di vittima, è interpretato da Oprah Winfrey, la più grande star della TV americana, alle prese con ben altri tipi di “sogni”. La discriminazione subita? Una commessa italiana di una boutique di lusso a Zurigo, questa l’accusa, avrebbe negato a Oprah la possibilità di acquistare una borsetta da 35.000 franchi (28.500€)! I have a dream, appunto. L’Italia non è da meno, e sembra ormai una gara a chi la spara più grossa, tra i presunti paladini dell’integrazione in salsa tricolore; ed è così allora che Khalid Chaouki, visto il “successo” delle esternazioni della collega Kyenge, ha pensato bene di proseguire nel solco di questa nuova generazione di paladini dei diritti negati. Senza timore, sfidando a viso aperto le potenti lobbies dei paninari e mortadellari italiani, ha gridato anche lui il suo “I have a dream”, che in questo caso si traduce in un più prosaico “sogno il kebab alla buvette!”. Avete capito bene, proprio quella buvette lì, il luogo contro cui sono stati sprecati fiumi d’inchiostro, divenuto simbolo (ridicolmente) della casta politica , dove anche un cornetto diventava privilegio. Questo Onorevole, di quella che dovrebbe essere la “nuova Italia”, secondo la filosofia del meticciato tanto cara alla Kyenge, si scopre non tanto diverso dalla vecchia italietta, quella che pensa sempre in piccolo, quella sempre pronta ad accapigliarsi per difendere il particolare privilegio, quasi sempre superfluo; e mentre tutto va a rotoli, mentre muoiono sei essere umani vittime di un falso sogno alimentato da una politica ipocritamente buonista, qualcuno si vuole battere per il Kebab per la casta. L’argomento è così ridicolo e stucchevole che non credo sia necessario nemmeno avventurarsi, nonostante sarebbe legittimo e sacrosanto, in un dibattito che si allarghi al concetto di reciprocità, visto che nei Paesi Arabi siamo ancora fermi alla messa al bando della Coca Cola, vuoi perché bevanda del nemico, vuoi perché secondo alcuni sarebbe considerata “haram”, ovvero proibita, a causa della lavorazione dei coloranti a base di alcol. Ecco come l’On. Chaouki, risponde ai suoi dettrattori su l’Huffington Post:

“A chi mi insulta, mi ritiene un provocatore o mi invita a tornarmene da dove sono venuto rispondo che questa è la mia patria. Non sono un immigrato ma figlio di immigrati. Amo l’Italia e vorrei cambiasse sempre in meglio come cerchiamo tutti i giorni con fatica di fare in Parlamento e non solo. Un’Italia, che nonostante Buonanno e Salvini, è sempre più multiculturale e multireligiosa.”

Dice di non essere un immigrato, ma figlio di immigrati, nonostante lui sia nato a Casablanca nel 1983, dove ha vissuto per 9 anni, arrivando in Italia solo nel 1992; un po’ poco per sfoggiare tutta questa retorica patriottica, che al contrario rischia di apparire artificiosa e di comodo. Khalid si produce poi in questo attacco contro Salvini e Buonanno, rappresentati come un ostacolo contro un’Italia che dovrebbe essere sempre più multiculturale e multireligiosa. L’On. Chaouki vive solo da dieci anni in Italia, è stato rappresentante dei Giovani Musulmani, ed è diventato membro del Parlamento Italiano; non ha mai pensato che lui stesso è la testimonianza vivente, la prova provata, che l’Italia non ha poi molto da imparare in tema di convivenza ed integrazione? Semmai la Lega, e i suoi esponenti, si battono per difendere una cultura, la nostra, troppo spesso bistrattata, annullata e sacrificata sull’altare del politicamente corretto. Sullo sfondo di queste discussioni, tinto da una mediocrità allarmante, cresce e si alimenta un preoccupante fenomeno di banalizzazione di terminologie e fenomeni, che al contrario, sarebbero seri ed importanti. Le difficoltà burocratiche nel partecipare ad una gita scolastica in Paesi extra UE (peraltro destinazioni rare per alunni minori), vengono presentate come discriminazioni ai figli di stranieri, la richiesta di emancipazione femminile di donne, spesso costrette ad indossare indumenti arcaici come il Burqa, viene paragonata al copricapo delle Suore cattoliche, l’inserimento del Kebab nel menu della buvette scambiato per un diritto civile, i CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) paragonati ai lager nazisti. Una deriva pericolosa, in cui si perde la misura delle parole, credendo di capitalizzare un consenso politico, sperando di alimentare tensioni razziali praticamente sconosciute all’Italia.