Una guerra inutile. Risposta a Paolo Romani

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Ho letto con interesse l’intervento ferragostano dell’on. Paolo Romani sulle colonne de L’Huffington Post, in cui lodevolmente ricordava il sacrificio di oltre 650.000 poveri ed innocenti ragazzi, morti nella Grande Guerra dal 1915 al 1918. Il pretesto, positivo, era di ricordarli durante un giorno tipicamente di svago, allegria e spensieratezza com’è il ferragosto italiano.

  
Non può però bastare un po’ di retorica, anche se mossa dalle migliori intenzioni, per compiere un buon servizio alla memoria di questi poveri ragazzi. Serve altro, serve l’analisi coraggiosa, e pure impietosa se dovesse servire, di cos’è oggi l’Italia per cui quei giovani furono chiamati al sacrificio.

Oggi la penisola italica continua ad essere, nonostante tutti gli sforzi possibili, un territorio non omogeneo, forse diviso ben oltre la storica frattura tra Nord e Sud. L’Italia continua ad essere faticosamente e malamente governata, a prescindere dal colore di chi controlla le leve del comando. Vittima di una burocrazia che, lungi dal ritirarsi, si stringe sempre di più attorno al collo di poveri imprenditori, semplici lavoratori e normali cittadini. Per non parlare poi di spesa pubblica e debito pubblico, ormai totalmente fuori controllo.

Questi sono i brillanti risultati figli della scellerata idea di forgiare l’Italia seguendo il modello di stato centralista, autoritario e accentratore. Gianfranco Miglio, che dedicò una vita intera a combattere la bestia centralista, parlando dell’inevitabilità della svolta federalista per l’Italia, scrisse:

«se qualcuno vorrà governare questo Paese, non potrà mai farlo seriamente senza riconoscere che esso non fu mai né sarà mai, per una folla di ragioni, uno “Stato Unitario”.»

Chi tentò l’azzardo di costruire forzosamente uno stato unitario in Italia, contro ogni evidenza storica, economica e persino naturale, si trovò nella necessità di costruire artificialmente un popolo, quello italiano, che popolo non era e che popolo non sarà mai, contraddicendo di fatto ciò che fin da subito fu chiaro a Massimo d’Azeglio: 

«Purtroppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gli italiani»

Ecco perché morirono quei ragazzi, mandati al macello nel tentativo, oggi sappiamo vano, di forgiare nel sangue un popolo che non si era avuto modo di creare nei primi decenni di unità. Mandare il meglio della nostra gioventù a soffrire le pene dell’inferno in una trincea, a morire come mosche sotto il fuoco della mitraglia compiendo inutili assalti. Questa fu per qualcuno la migliore delle idee per costruire una storia comune, di dolore e sangue, utile a formare quel senso di patria che quei ragazzi, mi spiace ricordarlo, proprio non avevano.

In realtà la trincea rivelò a quei giovani la realtà che la propaganda, di ieri e di oggi, ha sempre negato: l’Italia è formata da popoli diversi. Il bresciano si accorse in fondo di avere molto più cose in comune con chi stava dall’altra parte del fronte, rispetto a chi con lui fu condannato a vivere l’inferno della comune trincea. Parlavano lingue diverse, non riuscivano a comunicare tra di loro, e una divisa degli stessi colori non aiutò a unire ciò che era diviso. Un inutile spargimento di sangue dunque, che coinvolse anche 590.000 civili inermi e che dovremmo riconoscere almeno dopo cento anni.

Abbandonarci nella vacua retorica, con parole poetiche come queste:

« il cielo lacrimò di stelle cadenti per gli ultimi sospiri dei soldati colpiti »

in verità buone sole a riempire i telegrammi da spedire a familiari affranti dal dolore.

Non c’era Patria nel cuore di quei ragazzi, certo c’era il senso del dovere figlio delle tradizioni e della cultura che li aveva forgiati. Non faremmo loro però un gran servizio nel continuare ad ingannarli dopo un secolo, dopo già aver negato loro una lunga vita serena e felice con le loro famiglie.

Per risarcire quel sangue versato, seppur in grave ritardo, battiamoci per giungere a quella rivoluzione che davvero serve all’Italia: smantellare lo Stato Centrale, imporre una riforma federale dello Stato, che superi l’attuale regionalismo risultato persino dannoso, approdando alla dimensione macroregionale, capace di raccogliere  la sfida di costruire una nuova Europa, quella dei popoli liberamente confederati.

Uno Stato Federale Italiano in cui ogni cittadino potrà sentirsi più libero, in cui il perimetro dello stato dovrà per forza diminuire. Meno stato, meno spesa pubblica, meno parassitismo, meno corruzione. Solo così avremo degnamente riconosciuto il sacrificio di quei giovani.

Una risposta a “Una guerra inutile. Risposta a Paolo Romani”

  1. Ciao Andrea,
    difficile darti torto,
    purtroppo in questi anni abbiamo assistito senza batter ciglio alla distruzione di 30anni di lavoro della Lega Nord Padania e di Umberto Bossi che era riuscito a mettere al centro della discussione politica temi come il federalismo ( senza Bossi oggi nessuno saprebbe della sua esistenza ) l’autonomia l’indipendenza e la secessione.
    Sono lieto di leggerti e vedere che c’è ancora qualcuno che crede in quei valori e lavora per raggiungerli.
    Spero che saremo sempre più che si impegnino per tener viva la fiammella che Umberto Bossi ha acceso nei Nostri cuori 20/25 anni fa.
    Ricordo solo che gli Scozzesi dopo aver ottenuto una ventina di anni fa la devoluzione non si sono fermati e anno raggiunto l’obbiettivo di votare per l’Indipendenza meno di un anno fa.
    Per non far vincere il SI ricordo che si è schierato contro il mondo ma nonostante la sconfitta seppur di misura quel giorno ha dimostrato a tutti che i Popoli possono decidere il loro futuro.
    Non sottovalutiamo poi che alle elezioni politiche di qualche mese SNP a fatto il pieno degli eletti a voler dimostrare che anche noi possiamo/dobbiamo continuare a tener alta la nostra bandiera e un giorno il nostro sogno si realizzerà.
    Ciao Alessio