Bossi, processo politico e condanna infame

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È solo un processo politico, costruito per trascinare un uomo libero in tribunale, coprendolo con l’onta peggiore per un politico: l’accusa di essere ladro.

bossi
Domenica l’ultimo saluto a Doddore Meloni, nella Cattedrale di San Pietro, a Terralba, dove Salvatore viveva con la famiglia. E ieri, lunedì 10 luglio, lo stato italiano (rigorosamente minuscolo), continuava a processarlo. Il Tribunale di Oristano, infatti, ha solo rinviato l’udienza di uno dei tanto processi all’indipendentista sardo, al prossimo 17 luglio, perchè «Dobbiamo aspettare il certificato di morte». E sempre lunedì, in un altro tribunale, a Milano, veniva letta la sentenza di condanna in primo grado a Umberto Bossi.

Due storie e due figure lontane anni luce, che si intersecano però in uno stesso punto, in una curiosa coincidenza temporale: lo stato italiano (sempre rigorosamente minuscolo) con il suo bislacco sistema giudiziario, ha tentato e tenta di farli passare per semplici ladruncoli. Il primo condannato per evasione, il secondo per appropriazione indebita.

Perché se sei indipendentista, per la Sardegna o per la Padania non fa differenza, l’italia non ti rispetta come avversario e non ti processa per la tua azione politica. Ti umilia, ti deride e ti infanga. Fa di tutto perché tu venga additato con la peggiore delle accuse, almeno per un esponente politico: ladro. Un comportamento infame, analogo in queste due storie, che sono così lontane nello svolgimento e nell’epilogo, ma così vicine nel sistema vigliacco perpetrato da una giustizia che giustizia non è, che sia chiaro.

Si tratta di processi politici. Umberto Bossi andava condannato. Non perché fosse colpevole di qualche cosa, come sa perfettamente chi ha seguito il processo di Milano; Bossi andava condannato perché l’italia doveva annientare l’uomo e la figura che ha incarnato l’unico tentativo di ribellione dei popoli della Padania, contro quell’italia che fu costruita a danno di tutti, sud compreso. E si tenta di farlo, come detto, nel peggiore dei modi, gettando addosso al vecchio capo della Lega, debilitato nel fisico ma non nello spirito, la lettera scarlatta dell’infame accusa di aver rubato.

Un’accusa da cui è difficile difendersi. Anzi, è quasi impossibile, perché il politico è già «ladro» per definizione nell’immaginario collettivo, figurarsi se lo trascini a processo, peggio ancora se lo condanni, seppur solo in primo grado.

E qui, giusto per non correre rischi, si è costruito pure un processo di famiglia, gettando anche il figlio alla sbarra. Ecco dunque il teorema spicciolo, quello da dare in pasto al popolino: ladri, ladri di famiglia. Finirebbe qui per chiunque, morti e sepolti senza nemmeno il processo.

NIENTE PROVE, SOLO LA CONDANNA

Il processo, appunto. “Se l’imputato non si fosse chiamato Umberto Bossi, cioè il capo della Lega, il processo non si sarebbe nemmeno svolto”, così ha dichiarato il difensore Brigandì. E questa non è una provocazione, ma un dato di fatto oggettivo, visto che altri soggetti, inizialmente coinvolti con le medesime accuse, sono stati subito esclusi. Non si chiamavano Bossi, evidentemente non andavano processati e condannati.

Ma per cosa è stato condannato Umberto Bossi? L’accusa è di appropriazione indebita, ovvero l’aver usato i soldi della sua stessa Lega, cioè quella creatura a cui ha dedicato tutta la sua vita, tutto il suo tempo, tutto il suo patrimonio e tutti i suoi soldi. Ma se Bossi ha dato tutto per far nascere e crescere la Lega, di cosa dunque si sarebbe mai appropriato, tanto da essere condannato?

L’elenco è quanto di più ridicolo e sciocco si possa pensare.

Chi vorrà capirne e saperne qualcosa di più, armandosi di pazienza, troverà qui su Radio Radicale tutte le registrazioni. A tratti esilaranti. A Bossi, per esempio, contestano qualche migliaio di euro di multe, contravvenzioni al codice della strada per eccesso di velocità. L’accusa? Bossi si è fatto pagare le multe. Umberto Bossi, fatto notorio, è impossibilitato alla guida. Eppure, lo stato italiano, lo ha processato per essersi fatto pagare delle multe. Ridicolo. Ed è ridicolo che tutti ci credano.

Poi ancora, a Bossi contestano l’eccessivo acquisto di abiti e vestiti. L’uomo politico peggio vestito della storia, sbeffeggiato per anni perché circolava con canottiere e maglioni sgualciti, viene messo alla sbarra per aver acquistato troppi vestiti. Ridicolo, non vi pare?

E poi i mitologici lavori di ristrutturazione della «casa Roma Capo», come recita la famigerata cartellina «The Family», quella costruita e conservata con sospetto scrupolo da Belsito. Per la difesa non è bastato ricordare che Bossi di case a Roma non ne ha. È pero bastato all’accusa per chiedere 2 anni e 3 mesi di condanna. E alla fine, leggendo la sentenza, qual è stata la condanna decisa dal Giudice? Naturalmente di 2 anni e 3 mesi. Ordine ed esecuzione. Il naturale epilogo di quello che considero un processo politico: una condanna politica.

UMBERTO BOSSI NON MORIRÀ QUI

Sarebbe davvero ingiusto, meschino e vigliacco, ridurre la figura di Umberto Bossi, sicuramente uno degli uomini politici che hanno segnato la storia della seconda metà del ‘900, alla semplice lettura di una sentenza ingiusta e infame.

Non può essere così, semplicemente perché non è vero. Umberto Bossi, a cui ognuno dei suoi avversari potrà anche addebitare mille colpe e difetti, di certo non quello di aver goduto di una vita da salotto, fatta di cene eleganti e vestiti da fighetto. Bossi non se l’è spassata. Uno che per la Lega ha iniziato dormendo sulle panchine, ha speso la vita in riunioni e comizi, da est a ovest della Padania, mangiando ogni notte a qualche festa della Lega Nord.

Non finirà così, perché non deve finire così. Umberto Bossi è nei cuori della gente e nella storia della Padania. Questo non lo cancellerà nessuno, tantomeno l’infame stato italiano.