L’accoglienza diffusa è un fallimento. Fermiamola.

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È irresponsabile alloggiare negli appartamenti soggetti sconosciuti di cui non sappiamo nulla. Fermiamo questo modello

accoglienza

In Italia sono circa 130.000 gli stranieri residenti che attendono di sapere, solo dopo diversi mesi dalla richiesta, se hanno diritto o meno al riconoscimento dello status di profugo.

Non possiamo sapere molto di questi individui, perlomeno nella fase in cui si analizzano le loro domande. Tra questi ci può essere di tutto: brave persone, come naturale che sia, e pure potenziali onesti lavoratori. Se il lavoro in Italia ci fosse, ma questa è un’atra storia.

Il problema è che, sicuramente, tra di loro ci sono pure un sacco di lazzaroni, certamente alcuni pregiudicati e delinquenti, molto probabilmente numerosi soggetti inclini alla violenza e, potenzialmente, anche qualche singolo che potrà rivelarsi un terrorista. Qualche caso di cronaca ha già confermato che ciò è possibile: alcuni tra gli attentatori di Parigi erano entrati come profughi e il famoso terrorista di Berlino, Anis Amri, sbarcato a Lampedusa, addirittura dichiarandosi minore non accompagnato. E questi sono solo i casi conosciuti e noti alle forze dell’ordine.

Già solo questo, capirete, basterebbe per dissuadere qualsiasi uomo politico, minimamente responsabile, nel distribuire queste migliaia di persone in palazzi e appartamenti su tutta la penisola, piazzandoli nel pianerottolo di fronte ad una sciura Maria qualsiasi. Invece in Italia si fa così, e lo si fa da anni. Pazzesco.

La chiamano «accoglienza diffusa». Risultati? Disastrosi. Questo modello dispiega il suo fallimento in tre fasi. Eccole descritte sinteticamente:

PRIMA FASE: DISSEMINARE INDIVIDUI SCONOSCIUTI PROVOCA PANICO

Il tasso di insofferenza della popolazione verso i profughi, fino a qualche anno fa apprezzati e rispettati da tutti, è esploso. I casi di violenze diffuse, piccole e grandi, non si contano più. L’insofferenza per la convivenza è altissima: rumori molesti, odori molesti, igiene scarsissima. C’è poi un aspetto psicologico colpevolmente sottovalutato. La gente normale, ogni sera che rientra dal lavoro stanca e sfibrata, appena prima di aprire le bollette, la rata del mutuo o le tasse da pagare, è costretta ad inciampare, nel cortile di casa, in questi ragazzotti alti e robusti. Stanno sempre lì con cappellini e canotte alla moda, cuffietta obbligatoriamente sempre nelle orecchie, smartphone in mano. Ciondolano e si trascinano sghignazzanti dalla mattina alla sera, come ebeti. L’imprecazione è la reazione normale tra i più miti di noi. A tutti gli altri, credetemi, prudono le mani. E non è affatto una cosa bella. È brutta, bruttissima. Ma è più che giustificata.

SECONDA FASE: LA SPECULAZIONE ECONOMICA

Arriva poi il capitolo della speculazione economica, ovvero quel vorticoso giro d’affari generato dalla gestione di questa «accoglienza diffusa». Si sono moltiplicati i soggetti, più o meno ufficialmente caritatevoli, che si sono gettati a capofitto in questo mercato, fatturando cifre spesso a sei zero. Prima si limitavano ad affittare locali fatiscenti, ora è arrivato un salto di qualità. Stanno facendo incetta di immobili, acquistandolo. Molto probabilmente possono permetterselo proprio grazie ai ricavi generati dalle «grasse» commesse garantite dalla Prefettura. Molti operano in maniera corretta, sia chiaro. Sono pero tanti, anzi troppi, quelli che speculano addirittura sul cibo, o sulle condizioni in cui fanno vivere questa gente, così da aumentare sempre di più i profitti. Uno spettacolo spregevole, talvolta disumano, che però al contribuente costa tra i 4 e i 5 miliardi ogni anno.

TERZA FASE: CLANDESTINI OVUNQUE

C’è poi la terza e ultima fase del fallimento dell’accoglienza diffusa. La fine di questo percorso. Almeno il 60% di questi individui, quando va bene, non avrà diritto a nessuno degli istituti di protezione internazionale offerti dall’Italia, nonostante alcuni dei quali vengano assegnati in maniera abbastanza «generosa». A queste persone, che sono decine di migliaia ogni anno, viene dato un foglio con scritto: «torna a casa per favore e fallo a spese tue». Sì, buonanotte ai sognatori. Naturalmente nessuno lo fa. Con l’accoglienza diffusa, che ha disseminato e polverizzato questi futuri clandestini ovunque sul territorio, è certa l’impossibilità di controllare che fine farà questa massa di persone. I rimpatri, in questo modo, sono praticamente impossibili. La speranza dello Stato Italiano, sempre molto «rigoroso» e «corretto» nell’agire, è quella che riescano clandestinamente ad entrare in altri stati dell’unione. Lavarsene la mani, insomma. Poi ci domandiamo perché ancora ci sfottono con la pizza e il mandolino.

CAMBIAMO ROTTA, CI SONO ALTRE SOLUZIONI

Per questo l’accoglienza diffusa va fermata, iniziando una nuova e diversa politica. Da una parte sarà necessario lavorare per diminuire drasticamente gli sbarchi, dall’altra bisognerà gestire in maniera diversa questi richiedenti asilo. Nella prima fase devono essere ospitati in centri gestiti dallo Stato, controllati e presidiati. Fino a quando sapremo chi sono e a cosa hanno diritto. Solo a valle di questo processo, quando sarà chiaro chi siano davvero i profughi, potranno essere inseriti nel sistema SPRAR, ovvero in quei comuni che volontariamente hanno deciso di fare accoglienza. Volontariamente.
Perché non si è fatto così? Forse la risposta la troviamo proprio in quei 4/5 miliardi di euro che lo Stato paga ogni anno per l’accoglienza diffusa. In Italia è sempre così, devi seguire i soldi per trovare le risposte.